Sono 13 anni. Era il 18 novembre 1999. Altrimenti non sarebbe stato nulla.
Erano le 17 quando è suonato il cellulare di mio marito e mi comunicavano
che dovevo essere con Pamela in ospedale entro due ore… “Altrimenti il fegato lo diamo a qualcun altro.”
Pamela aveva 5 mesi e 9 giorni di vita. Nata il 10 giugno 1999 con una malformazione congenita al fegato,
era già stata operata il 20 agosto.
Un’operazione lunga 12 ore che serviva a tentare di drenare il fegato.
Atresia delle vie biliari extra epatiche.
Colpisce un bambino su 18 mila. E quella bambina era la mia.
Ogni giorno, dal 20 agosto al 19 novembre, abbiamo vissuto come fosse l’ultimo.
Io, mio marito e mio figlio che aveva all’epoca solo 3 anni.
Ogni giorno era una conquista e un passo in più verso la fine.
Sapevamo che aspettare un fegato per nostra figlia voleva dire che qualcun altro sarebbe morto.
E nel caso specifico, essendo una neonata, era presumibile che si sarebbe usato un fegato di un bambino,
al massimo di un ragazzo.
A volte guardavo mio figlio che giocava e pensavo che un bambino come lui
poteva essere il donatore per Pamela e non riuscivo a capacitarmi del fatto
che in questo mondo per salvare una vita si debba aspettare la fine di un’altra.
Non esiste una vita migliore di un’altra.
Quella telefonata del 19 novembre era la possibilità per Pamela di vivere
ma voleva dire anche che una mamma probabilmente stava piangendo un figlio.
Non è stato facile, anche se difficile da credere, dire di SI subito.
E non è stata facile quella notte. Lunga, fredda, nevicava.
La mattina del 19 novembre alle 6 ci hanno chiamati per dirci che era finita
e che potevamo vederla uscire dalla sala operatoria.
Una fotografia stampata nella mia mente.
Uno corpicino di pochi chili, meno di 5, coperto di tubi.
Restava libera solo una piccola parte di guancia, tra un cerotto e l’altro,
di un colore grigio pallido. Un’immagine che non credo si cancellerà mai.
E non si cancellerà mai nemmeno l’immagine di quella madre
che piange il suo ragazzo, morto il 18 novembre 1999 nei pressi di Legnano.
Almeno questo è quello che c’è scritto in cartella clinica a riguardo
del donatore del fegato che ha salvato la vita a Pamela.
Come ogni anno spero che qualcuno possa far arrivare questo messaggio
alla famiglia di quel ragazzo e autorizzo chiunque
a divulgare questo articolo su ogni mezzo e in ogni modo.
Articolo di cui lascio la conclusione a Pamela, che oggi,
a 13 anni (per la seconda volta) ha finalmente deciso di scrivere:
“Donare. Facile a dirsi ma difficile a farsi.
Tutti dicono di essere bravi, buoni e di aiutare gli altri ma se non doni,
come fai ad aiutare gli altri?
Quegli altri costretti a contare i giorni della loro vita,
quelli costretti a contare i nomi di una lista di cui non vedranno mai la vetta,
costretti a sperare in una telefonata che non arriverà mai.
Io, ero una di loro forse troppo piccola per ricordare ma,
solo il pensiero che sarei morta perché delle persone
(si sarebbero rifiutate di donare) gli organi del proprio defunto
con la scusa che “non voglio che vengano aperti e svuotati”,
mi fanno venire una lacrima e una rabbia immensa.
Non è vero che dopo la morte non si può più far niente:
si possono salvare tante vite donando gli organi.
(Pamela Uberti)”e Sofia Riccaboni.
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